Oltre il Giardino

oltre il giardinoDa lunedì tutto riapre: musei, teatri, siti storici, fondazioni, cinema, ristoranti,
E’ un segno di speranza, e anche linfa vitale per questo povero blog negletto.
Ho rivisto un paio di amici, che ormai erano diventati degli ologrammi sul mio computer.
Ci siamo trovati a camminare in una città ancora addormentata, sebbene aperta agli avventori e movimentata dal traffico. Abbiamo scoperto di non saper più attraversare la strada.
Mi sono accorta che la mia attenzione nelle conversazioni è divenuta un po’ malferma.
Ogni tanto il cervello si spegne e mi perdo qualche passaggio. Le strade che conoscevo, hanno sensi di marcia diversi, sono pedonalizzate, ciclabili, interrotte dai lavori. Non si può sempre entrare dagli ingressi che davamo per scontati. Bisogna essere attenti e flessibili. Preferisco camminare che prendere i mezzi, prediligo il treno alla metropolitana.
La prossima settimana torno fisicamente al lavoro, da domani ho già due mostre prenotate.
Due mesi fa, subito dopo il mio post dantesco, ho ricevuto la prima dose di vaccino (AZ).
E’ stato rapido, indolore, eppure emozionante. Mi hanno pure dato un’adesivo, come quella medaglia delle elementari che celebrava un dieci in matematica. Qualche linea di febbre in serata, e poi basta. Fra due settimane, il richiamo. Non sarò invincibile, ma, si spera, nemmeno troppo vulnerabile. Meglio che stare rintanati nel guscio, come paguri.
Non dico che tornerò alla normalità, perché è un concetto molto labile.
Tornerò a vivere una nuova prospettiva, facendo le cose di prima in un altro modo (come usare il nuovo editor di WordPress) oppure avendo imparato a farne altre. Soprattutto, essendomi misurata con me stessa, con la mia forza e le mie fragilità.
Poco prima della pandemia avevo letto un bel libro, l’analisi-riflessione di Massimo Venturi Ferriolo, filosofo del paesaggio: Oltre il Giardino.
Ripensare il mondo come un giardino, luogo estetico di contemplazione, in opposizione al consumismo e all’utilitarismo distruttivo.
E proprio il giardino, il parco, l’orto botanico, il cimitero dismesso, l’aiuola di guerrilla gardening, la striscia di terra davanti casa, i vasi sui miei davanzali, i libri di botanica e gli acquerelli per raccontare le piante, le erbe e i fiori, anche quelli cresciuti nelle crepe dei marciapiedi, sono divenuti la mia ancora di salvezza in questo anno complicato.
La connessione, il modo in cui ci relazioniamo con la natura e la sperimentiamo, significa provare una relazione intima o un attaccamento emotivo al nostro ambiente.
In questo anno di separazione, difficoltà e perdite, ho ascoltato attentamente il canto degli uccelli, ho toccato la corteccia degli alberi, ho imparato a riconoscere e disegnare, raccogliendo foglie, petali e bacche, affondando le dita nel terreno per piantate semi e bulbi.
Non è un caso se le ultime ricerche della Mental Health Foundation, hanno individuato nel passare del tempo all’aria aperta uno dei fattori chiave per affrontare lo stress da Covid-19.
Durante la pandemia, il 45% delle persone nel Regno Unito ha affermato che visitare degli spazi verdi,  li ha aiutati a far fronte all’isolamento, alla depressione e all’ansia.
Anche quando tutto sarà aperto, e gli impegni mi porteranno fuori dalle quattro mura di casa, voglio continuare a mantenere questa connessione speciale con la natura.

Dante a colori

Si avvicina il Dantedì, la Giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri, istituita il 25 marzo 2020. Quest’anno, si celebrano anche i 700 anni della morte del Sommo Poeta, avvenuta il 14 settembre 1321.
Ci sono due Danti che mi hanno colpito visivamente quando ero ragazzina.
Uno, tra i più famosi, è quello immaginato da Gustave Doré.
Mio nonno possedeva un voluminoso tomo della Divina Commedia, corredato da incisioni, che la Sonzogno di Milano aveva messo in commercio, sia in versione lusso, sia in, diciamo, economica, con copertina in cartonato e simil pelle, a partire dalla fine dell’Ottocento.
A questo Dante in bianco e nero, se ne aggiunse presto un altro, raffigurato su una cartolina che il vicino ci inviò da Firenze.
Questo Dante era a colori, se ne stava pensoso all’angolo tra il Ponte Santa Trinita e il Lung’Arno, mentre Beatrice gli sfilava davanti, formosa e paludata, circondata da dame di compagnia. Sullo sfondo, il Ponte Vecchio.
Anni dopo, ho scoperto che questa immagine era in realtà un quadro, “Dante and Beatrice”, realizzato dal pittore londinese Henry Holiday.
Il dipinto fu esposto alla Grosvenor Gallery nel 1883 e oggi è custodito alla Walker Art Gallery in Liverpool.
Holiday, che aveva per amici i preraffaelliti, ha raccontato egli stesso la genesi di questo dipinto, per la realizzazione del quale, si era recato a Firenze, nel 1881, ed aveva studiato gli sfondi della scena per filo e per segno.
“Ero rimasto colpito dal fascino del racconto di Dante, del suo dolore quando Beatrice in alcune occasioni gli negò il saluto…”
Holiday aveva scoperto che il Ponte Vecchio, l’elemento centrale del suo dipinto, era stato distrutto da un’alluvione, ed era stato ricostruito poco prima dell’epoca di Dante. Sempre nello stesso periodo, le strade di Firenze erano state pavimentate in mattoni.
Holiday aveva perciò studiato una vecchia pavimentazione a Siena, con i mattoni disposti a spina di pesce.  Studiando gli edifici e i dettagli ancora esistenti, la Firenze di Dante diventava realtà.
Per le dame rappresentate nella scena, il pittore aveva chiesto di posare a Miss Eleanor Butcher (Beatrice), Miss Milly Hughes, (Monna Vanna, in rosso) e Miss Kitty Lushington, figlia di un noto giudice (la donna in blu).
Per Dante, Holiday si era ispirato alle sembianze di suo amico italiano, anche lui artista.
I piccioni del quadro, invece, furono dipinti da John Trivett Nettleship, un celebre pittore inglese, specializzato in animali, soprattutto leoni, e anche lui in rapporti amichevoli con i preraffaelliti.

 

Un anno di pandemia

Un anno fa, in ritardo di due settimane rispetto all’Italia, il governo britannico decideva per la chiusura, chiedendo alla popolazione di restare a casa (anche se, molti, lo stavano già facendo).
C’erano molta paura e incertezza, non si trovavano le mascherine, il paracetamolo e la carta igienica, il silenzio era costellato di sirene di ambulanze, avevamo un numero di call centre da chiamare in caso di sintomi, ma nulla di più. Le scene in tv erano abbastanza epurate, l’isolamento era piuttosto liberale. Potevamo uscire per fare la spesa e una passeggiata nel parco, mentre in Italia la gente era bloccata sui balconi o in finestra. Nessuno ci ha mai fermato per chiederci l’autocertificazione. All’inizio mettevo una mascherina da muratore, poi una di tessuto. Le mascherine erano pressoché ignorate, in un anno sono rimaste un’appendice, con vaghe raccomandazioni di obbligatorietà su mezzi di trasporto o negozi. Gli slogan del governo erano molto semplici, vagamente infantili, un po’ frasi d’artista. Si è cominciato con Hands. Face. Space. per proseguire con Stay Alert. Control the virus. Save lives. Come se il virus fosse un paracadutista della Seconda Guerra mondiale o un animale da domare. Poi si sono susseguiti errori tattici, comportamenti ignari, tre lockdown, due ondate, numeri da record di vittime e pure una variante da esportare, nonostante la Brexit.
Ed io?
Tra passeggiate nella natura, botanica, spentolamenti in cucina, lezioni online, lavoro virtuale, cassa integrazione, studio, letture, disegno, musei vuoti, strade semideserte, un paio di cene distanziate, un sierologico, quattro antiginenici e due molecolari più tre quarantene e varie peripezie e avversità, mi ritrovo oggi qui, con meno certezze e anche meno energie.
Un anno fa avevo le idee un po’ più chiare, oggi, invece, so di non sapere e, ogni tanto, mi chiedo ancora cosa farò da grande.
Però è arrivata la lettera dell’NHS per fare il vaccino.
In dodici mesi, non si è stati bravi a prevenire e contenere, ma almeno si è riusciti a produrre qualcosa che possa frenare l’irruenza di questa epidemia, e ridare un po’ di speranza, anche se non ne siamo ancora fuori e la terza ondata è già una realtà.

A Ledbury, l’Ultima Cena “perduta” di Tiziano

Ledbury è un pittoresco borgo medievale nella contea dell’Herefordshire, che include il mercato coperto, il Feathers Inn, una locanda dalla tipica architettura a graticcio, e la parrocchiale di St Michael and All Angels, il cui edificio risale al XII secolo, ma che viene già citata nel Domesday book.
In questa bella chiesa medievale, sopravvissuta agli insulti della Riforma Protestante e della Guerra Civile (si possono ancora vedere i colpi di moschetto sulle vecchie porte di legno nel portico nord) sono preservate numerose opere di varie epoche, tra cui una copia dell’Ultima Cena di Leonardo, eseguita nel XIX secolo e posta sull’altare maggiore. La chiesa custodisce un’altra Ultima Cena, sulla parete della navata nord. Annerito dal tempo, questo dipinto di grandi dimensioni, non meritava nemmeno una menzione nel sito della chiesa o nei suggerimenti di tripadvisor. A molti dei parrocchiani, per giunta, nemmeno piaceva.
Quando però, tre anni fa, si è proceduto alla ripulitura della tela sull’altare, Ronald Moore, restauratore e storico dell’arte, ha avuto modo di dare un’occhiata anche al quadro negletto.
Dietro a secoli di patina e sporco, sono riemersi colori e particolari sorprendenti, tra cui la firma di Tiziano su una delle due anfore, in basso a sinistra. Addirittura, il volto di uno degli apostoli (quello in giallo, sempre a sinistra) potrebbe essere l’autoritratto dell’illustre pittore veneziano.

ultima cena tiziano

Dipinto dell’Ultima Cena nella chiesa di St Michael and All Angels, Ledbury © Hereford Times

Ma come è possibile che un quadro della bottega di Tiziano sia potuto arrivare fino in Herefordshire?
Le ricerche documentarie puntano a John Skippe, un artista locale, educato ad Oxford e appassionato collezionista, che, in una missiva del 1775, affermava di aver acquistato il quadro da una ricca famiglia Veneziana.
La tela sarebbe stata commissionata, in origine, da un convento della Serenissima.
Gli eredi di Skippe avevano poi donato il quadro alla parrocchia di St Michael nel 1909 e, da allora, il quadro era rimasto appeso nella chiesa, quasi del tutto ignorato. Molti ritenevano fosse una copia ottocentesca di qualche grande maestro italiano, ma niente più.
Il dipinto della chiesa di St Michael aveva perso la sua brillantezza, a causa del tempo e di interventi di restauro sbagliati, che ne avevano anche alterato i colori.
L’esame ai raggi violetti, oltre alla firma di Tiziano, ha messo in luce numerosi pentimenti, segno che il maestro era intervenuto qua e là sul lavoro dei suoi collaboratori. Tiziano era un pittore famoso e richiestissimo e le commissioni fioccavano da tutta Europa. Oggettivamente, non avrebbe potuto fare a meno di un team fidato di artisti e allievi ai quali affidare il grosso dei lavori, per poi intervenire sui particolari.

La firma di Tiziano ai raggi infrarossi

La firma di Tiziano ai raggi infrarossi © The Daily Telegraph

La sua illustre bottega includeva, solo per citarne alcuni, il figlio Orazio, Palma il Giovane e Girolamo Dente. Durante il suo lavoro di restauro e di ricerche, Moore è stato coadiuvato da altri ricercatori, tra cui la sua assistente Patricia Kenny, e la professoressa Alessandra Zamperini, dell’Università di Verona, esperta di Storia dell’Arte Veneta.
A fine marzo sarà anche pubblicato un libro, dal titolo ‘Titian’s Lost Last Supper’.

Il bicentenario della morte di John Keats

john keatsIl 23 febbraio si celebra il duecentesimo anniversario della morte del poeta romantico John Keats.
Keats era malato di tubercolosi e aveva passato gli ultimi cinque mesi della sua vita a Roma, dove si era recato nella speranza che il sole del Mediterraneo potesse alleviare le sue condizioni.
Il poeta era nato ed era stato battezzato nella City di Londra nel 1795. Inizialmente aveva tentato di diventare medico al Guy’s Hospital, ma poi aveva abbandonato gli studi per dedicarsi alla poesia.
Keats si era trasferito allora ad Hampstead (che ai tempie era poco più di un villaggio fuori Londra) e aveva alloggiato a Wentworth Place (ora Keats House) dal dicembre 1818 al settembre 1820.
Ad Hampstead, Keats si circondò di amici e conobbe Fanny Brawne, il suo grande amore, per la quale scrisse la maggior parte dei componimenti che lo hanno reso celebre.
Essendosi ammalato di tubercolosi, il poeta lasciò l’Inghilterra per recarsi in Italia, e fu a Roma che scrisse “Bright Star”, una delle sue poesie più famose. Purtroppo, il clima non gli giovò come aveva sperato ed il giovane morì il 23 febbraio 1821 a soli 25 anni.
Gli amici Joseph Severn e Charles Armitage Brown si occuparono dell’epitaffio sulla tomba nel cimitero acattolico di Roma, presso la Piramide Cestia.
La tomba non porta esplicitamente il nome del poeta, ma è incisa con le parole dettate da Keats sul letto di morte: “Here lies one whose name was writ in water” (“Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua”). Evidentemente Keats, che non era mai stato accolto favorevolmente dalla critica contemporanea, riteneva di non poter ottenere alcuna fama postuma.
Tuttavia, la sua morte così precoce e drammatica, diede vita alla leggenda romantica della malattia fatale, causata dal rifiuto e dalle critiche negative. Un altro poeta inglese, Percy Bysshe Shelley, celebrò la dipartita di Keats nell’elegia Adonaïs, scritta qualche settimana dopo il funerale, e che contribuì alla sua fama in Europa.

Virtual_KeatsGrazie agli esperti dell‘Institute for Digital Archaeology, che lo hanno “ricreato” in digitale, Keats può rivivere virtualmente. Linguisti, curatori e fisici hanno lavorato insieme per riportarlo in vita, restituendogli voce, volto… e anche i suoi vestiti!
Per la voce e la dizione ci si è rivolti a specialisti vocali, mentre, per la creazione in 3D, il team si è basato sulle maschere realizzate dopo la morte del poeta, e sui ritratti in miniatura, eseguiti mentre era in vita, tutte fonti di altissima qualità. Gli esperti si sono invece divisi sulla scelta degli abiti, perché gli aneddoti raccontano che Keats aveva adottato uno stile continentale durante il suo soggiorno romano. Hanno comunque potuto attingere alla vasta collezione di abiti del Victoria and Albert Museum di Londra.
Keats aveva pubblicato dozzine di poesie nel corso della sua breve esistenza, ma sarà “Bright Star” ad essere recitata dal poeta virtuale, proprio nell’anniversario della sua morte, e nella stessa stanza dove spirò, nella casa al n. 26 di piazza di Spagna, che ora è un museo.
Ed è la Keats-Shelley House a Roma a promuovere una serie di iniziative digitali, per commemorare la morte del poeta.
Oltre all’attesa apparizione del John Keats generato al computer, che reciterà il suo poema alle 18 italiane (le 17 in UK), nella stessa giornata si segnalano anche l’anteprima online di “The Death of Keats”, una video storia immersiva narrata da Bob Geldof (disponibile sul canale YouTube della casa museo) e un tour panoramico con guida dal vivo, che sarà disponibile a partire dal 23 febbraio.
Anche il Keats House Museum ad Hampstead celebra la vita, le opere e l’eredità di Keats, grazie ad una serie di eventi online, tra cui una mostra virtuale.
Si può anche seguire il bicentenario sui social, mediante l’hashtag #Keats200.

Il salotto della principessa Anna

Le restrizioni da coronavirus hanno costretto i britannici a restare il più possibile a casa, da prima di Natale.
Vi ricordate com’era il vostro salotto in zona rossa o in isolamento?
Ecco, sembra che in questo, i membri della famiglia reale non siano tanto diversi dai comuni sudditi.
Magari la scelta dell’arredamento e del colore delle pareti tradisce l’appartenenza alla classe superiore, ma anche una principessa può avere il soggiorno in disordine.
In un post sui social media, condiviso online lo scorso fine settimana, la principessa Anna è ritratta nel soggiorno della sua proprietà a Gatcombe Park, con il marito, Timothy Laurence, intenta a guardare l’incontro di Rugby in tv.
Subito gli utenti social si sono scatenati, facendo notare il disordine e l’accumulo di libri e ninnoli nel principesco salotto.
Se lo scopo del tweet della principessa reale era quello di celebrare la vittoria della squadra scozzese (di cui lei è patrona) sull’Inghilterra nel torneo delle Sei Nazioni, il risultato le è decisamente sfuggito di mano.
I minimalisti, sussultando per il disordine, hanno invocato un intervento radicale alla Marie Kondo;
quelli più attenti ai dettagli, hanno notato un cuscino di gomma piuma extra large, su cui la principessa sedeva per ovviare alla scomoda rigidità elegante del divano chintz.
Per finire, i tabloids inglesi si sono lanciati in manuali spiccioli di arredamento e anche quiz, per capire a che classe corrisponda il proprio salotto.
Quello della principessa coinciderebbe con un certo tipo di interior design delle classi superiori: una stanza accogliente, arredata con mobili di mogano e poltrone tradizionali di ottima fattura, piena di roba (libri accatastati sopra altri libri, su cui pencolano foto e statuette), in cui si intravede una cuccia, a fianco della televisione (quindi il salotto, in certe giornate invernali, sarà pervaso dall’odore di cane bagnato e ci saranno macchie di fango sul tappeto). Ma se siete una principessa chiaramente non vi importerà di riordinare e tantomeno vi interesserà cosa pensano gli altri del vostro arredamento.

A Londra, Mr. Darcy porta neve e ghiaccio

Mr Darcy e Storm DarcyAvevo sempre pensato a Darcy come al prototipo di ricco gentiluomo inglese.
Ora, invece dell’affascinante, romantico eroe del romanzo di Jane Austen, Darcy è il nome dell’ennesima tempesta che sta flagellando il Regno Unito e che ha imbiancato Londra nelle ultime 48 ore.
E’ risaputo che la maggior parte delle tempeste si verifica all’inizio dell’anno, durante i mesi invernali. L’anno scorso, la tempesta Ciara mi aveva impedito di rientrare a Londra, a causa di venti molto forti che avevano flagellato l’Europa del Nord.
Quest’anno una coltre di bianco ha reso tutto un po’ incantato e ci ha distratto dalla solita routine dell’isolamento. I londinesi, si sa, non sono abituati alle nevicate come capitano in altre parti dell’Inghilterra, quindi, anche uno o due centimetri, bastano ad esaltare gli animi. E’ sufficiente dare un’occhiata ai social per constatare il fioccare di post sulla neve.

Tornando al nostro Darcy, ma perché questo nome?
Per gestire le tempeste, i servizi meteorologici del Regno Unito e dell’Irlanda emettono avvisi per ogni fenomeno avverso che dovrebbe colpire il paese. 
Questi avvertimenti sono accompagnati da nomi, alternando maschili e femminili, una pratica avviata più di sei anni fa.
La stagione delle tempeste inizia a settembre di ogni anno e ogni 12 mesi viene redatto un nuovo elenco di nomi, che nel 2021 sono:

Aiden, Bella, Christoph, Darcy, Evert, Fleur, Gavin, Heulwen, Iain, Julia, Klaas, Lilah, Minne, Naia, Oscar, Phoebe, Ravi, Saidhbhín, Tobias, Veronica e Wilson.

Se una tempesta arriva sulle coste del Regno Unito dagli Stati Uniti, il Met Office continua a utilizzare il nome assegnatogli dal servizio meteorologico nazionale americano, per evitare confusioni.
Di solito, il Met Office, la sua controparte irlandese Met Éireann ed il servizio di previsioni meteorologiche olandese KNMI, scelgono i nomi delle tempeste chiedendo ai membri del pubblico di inviare suggerimenti. Chissà, magari qualche romanticone/a avrà sicuramente indicato il signor Darcy, dato che questa è la settimana di San Valentino.

Quota 100

Una settimana fa, il Regno Unito ha raggiunto un triste record: primo Paese europeo, e quinto nel mondo, per numero di decessi a causa del coronavirus.
100.000 morti è una cifra che fa impressione. E’ come cancellare in un attimo tutto il pubblico dell’arena di Campovolo, a Reggio Emilia, oppure tutti gli spettatori del Wembley Stadium di Londra, e ne avanzano 10.000.
Siamo pure al terzo lockdown, tier 5, praticamente un equivalente surreale di zona rossissima, che però non prevede gente tappata in casa, parchi giochi transennati, mascherine anche in strada, coprifuoco.
Non sto qui a polemizzare sulle colpe e le ragioni, sarebbe noioso…
Mi è dispiaciuto leggere sul giornale di oggi che Captain Sir Tom Moore è morto di coronavirus. Sembra una beffa crudele, proprio ora che stavano facendo i vaccini agli ultra-ottuagenari.
Questo anziano veterano di guerra, era diventato famoso nel primo lockdown, dopo essere riuscito a raccogliere oltre 30 milioni di sterline per aiutare l’NHS, il servizio sanitario nazionale britannico. Per fare ciò, l’8 aprile aveva lanciato una sfida: avrebbe fatto 100 giri a piedi, aiutandosi con il deambulatore, nel suo giardino, sperando di riuscire a raggiungere la cifra di 1000 sterline prima del suo centesimo compleanno, il 30 aprile.
I soldi si erano moltiplicati, e per gli ultimi venti passi, la TV aveva organizzato per lui un picchetto d’onore, con i soldati del suo ex reggimento.
Ormai era divenuto una celebrità, tutta la nazione gli aveva mandato biglietti di auguri per i suoi 100 anni, e la Regina lo aveva fatto Baronetto.
Sir Moore si era ritrovato anche ad essere l’artista più anziano con un disco primo in classifica, dopo aver inciso, assieme a Michael Ball, una cover di You’ll Never Walk Alone, i cui proventi erano andati anch’essi in beneficenza.
Insomma, Tom Moore è stato un gentiluomo di altri tempi, vero rappresentante del Blitz spirit, che , con il suo stoicismo e determinazione, e il suo sorriso garbato, aveva mostrato come reagire di fronte ad un nemico invisibile, in un momento tanto critico e spaventoso per tutti.
Che se lo sia portato via proprio il virus, lascia tanta tristezza.

 

Buon 2021?

 

happy man treeIl primo post dell’anno, e il primo post dell’era Brexit.
Che dire?
Siamo al terzo lockdown, con variante inglese del virus che impazza. 
Un londinese su trenta ce l’ha.
Il sindaco ha dichiarato lo stato di emergenza, bisogna stare a casa il più possibile, perché gli ospedali sono ingolfati. 
Arte, cultura e tutto quello che mi capita a Londra… Difficile mantenere fede al sottotitolo di questo blog.
I musei sono chiusi, la cultura è per lo più digitale, ma non vi si accede dal vivo; l’arte, ormai, la faccio io, prendendo spunto dalla natura e dalle passeggiate al parco e seguendo una classe di disegno in streaming. 
Mi diletto con le effemeridi della storia e le conferenze online, però mi piacerebbe leggere di più quest’anno… Chissà se ci riuscirò. 
Mi mancano i miei giretti da flâneuse, che tanto hanno ispirato i miei post.
Continuo a camminare, esplorando la zona e la serie di parchi, boschi e spazi verdi della Green Chain.
La posta arriva in ritardo, perché i postini sono malati. Le spedizioni dall’Europa idem, perché, adesso, per inviare qualcosa, bisogna compilare una dichiarazione doganale. E molte imprese e corrieri britannici hanno ridotto o sospeso le consegne nell’UE, mentre le aziende sono alle prese con i nuovi controlli alle frontiere e tasse di importazione. Prima di Natale c’è stato un mega-ingorgo a Dover, file di camion bloccati. Gli inglesi si sono fatti prendere dal panico e hanno fatto incetta di lattuga. I porri e le patate, per fortuna, li hanno lasciati.
Un antico platano di Hackney, soprannominato ‘The Happy Man Tree”, che era stato votato albero dell’anno nel 2020, è stato tagliato poco prima della Befana. Dava fastidio al progetto di riqualificazione di Berkeley Homes. Non sono servite proteste e petizioni, ormai era troppo tardi per alterare il progetto di costruzione di nuovi appartamenti ( 58% privati e di lusso e solo 20% popolari) e risparmiare la vita al platano, che aveva la bella età di 150 anni. Anche volendo apporre delle modifiche, si sarebbe verificato un ritardo di quindici mesi sui lavori.
Decisamente troppo, sia per i costruttori che per il municipio.
A Londra il tempo è denaro, anche quando il tempo sembra essere sospeso da una pandemia.  
E, quindi, per qualsiasi lieto fine, bisognerà aspettare ancora…

 

L’Arte appaga, ma non paga

NHM

E’ un anno nero per i musei, le pinacoteche, le dimore storiche, i cinema, i teatri e le sale concerto londinesi. Dopo aver riaperto i battenti ad estate inoltrata, sono rimasti di nuovo fermi nel secondo lockdown di novembre. Hanno potuto riaprire agli inizi di dicembre ma, dopo neanche due settimane, hanno chiuso di nuovo, a causa del Tier 3, il livello più alto di restrizioni Covid.
Pensavo che questo livello corrispondesse pedissequamente alla zona rossa italiana, tuttavia, mi è bastato fare un giro, per notare che tutti i negozi, anche quelli non classificati come di prima necessità, sono aperti, così come restano aperti barbieri, parrucchieri, saloni da estetista, saune, palestre. Nonché caffè, pub e ristoranti, quelli in grado di fornire un servizio di asporto.
Non ho mai visto tanta gente in giro, e, tra l’altro, le mascherine restano un optional, persino là dove dovrebbero essere obbligatorie, perché nessuno davvero controlla e il poster alla Julian Opie che minaccia multe salatissime, è un blando deterrente.
Insomma, qui in UK come in altri paesi d’Europa, è considerato sicuro affollare un centro commerciale, ma pericoloso andare a vedere una mostra o assistere ad uno spettacolo.
Eppure, Public Health England non ha registrato alcun caso di coronavirus che sia stato trasmesso in un’attrazione turistica nel Regno Unito.
Musei e altri luoghi di cultura hanno messo in pratica un rigido sistema di prenotazione anticipata, con distanze fisiche garantite da biglietti a orario e da numero ridotto di utenti, obbligati ad indossare la mascherina e a seguire un percorso sanificato e ben stabilito.
Dopo essersi a malapena rimesse in piedi dal primo lockdown, piene di speranza di poter recuperare qualcosa in seguito al secondo, adesso molte realtà culturali si trovano in una situazione finanziaria molto difficile se non drammatica. Potrebbe dunque essere difficile, per alcune organizzazioni, riuscire a restare a galla nel 2021…